La traviata @ filodrammatici 

Reduce da un Sabato sera alternativo-culturale con madre al teatro filodrammatici con una Traviata inedita (almeno a Milano ), curata da VoceAllOpera, che, dopo aver fatto scoprire il melodramma ai milanesi con flashmob in metro in breve diventati virali sul web (e lo trovate qui:https://m.youtube.com/watch?v=L8BWqwaqbvY&autoplay=1) , ha confezionato una piacevole opera in chiave pop-contemporanea-a tratti sadomaso (diretta da Gianmaria Aliverta), riuscendo nel sempre più diffuso ma a mio avviso mirabile tentativo di attualizzare le pagine più note della tradizione operistica. Minimal ma con un intento assolutamente filologico l’accompagnamento musicale per archi e pianoforte, priva di sbavature e decisamente godibile l’interpretazione dei protagonisti, a partire dalla Violetta di Federica Vitali e dall’Alfredo-Oreste Cosimo, belli bravi e molto giovani, nuove leve del nostro panorama lirico. Decisamente approvata…

Credits: http://www.voceallopera.com/

      

Il giardino dei Ciliegi @ Teatro Filodrammatici

Il cechoviano Giardino dei ciliegi ha aperto col botto la nuova stagione del Filodrammatici. E’ ancora in scena fino a domenica, quindi avete ancora un weekend per approfittarne e non perderlo.

giardino-ciliegi-sitoE’ da vedere perchè gli attori sono giovani, sono bravi e sono riusciti nella difficile impresa di riproporre (attualizzandolo) un classico del celebre quanto potenzialmente soporifero drammaturgo russo senza mai e dico mai farmi sbadigliare. E dato che la mia capacità di rimanere vigile di fronte a “polpettoni” tardo-zaristi è al di sotto della media anche della platea più narcolettica, direi che posso considerarmi una buona cartina tornasole, capace di dimostrare quanto l’interpretazione dell’affiatata ditta Buffonini-Burgarello-Drago-Lamantia-Latina-Rausa-Salmetti-Stara-Di Virgilio nei panni di Ljuba Andreevna Ranevskaja & family, la produzione dell’Associazione Teatro Ma, e la regia misurata a tratti stilizzata ma dirompente di Benedetto Sicca, cadenzata dall’accompagnamento a volte struggente, a volte tragicomico di un violoncello, abbiano saputo rendere pienamente godibile e vivo il difficile testo dell’autore di Taganrog.

Giardino dei ciliegi al Filodrammatici foto di F.Renda

Il giardino dei ciliegi di Sicca diventa un reticolo di nastri elastici bianchi, polverosi, tesi, pronti a saltare. Tensioni esistenziali, rapporti familiari e umani sull’orlo del collasso, incomunicabilità tra classi sociali nel naturale avvicendarsi di un’aristocrazia apatica e in declino e un proletariato rurale arricchito e arrivista.

Incastrati in questa (ir)realtà, i personaggi di Cechov sono perfettamente caratterizzati: una vecchia generazione generosa fino alla prodigalità, sdegnosa fino alla superbia incapace di rendersi conto dell’inarrestabile debacle del suo mondo, giovani donne senza un futuro e senza la voglia di crearsene uno, parvenu rapaci a caccia di riscatto, intellettuali rammollitti che celano dietro una maschera di devozione e superiorità un vuoto pneumatico dell’esistere difficilmente colmabile. La compagnia del Teatro Ma confeziona così uno spettacolo corale e ben orchestrato, un improbabile dialogo tra sordi che, soprattutto nella sovrapposizione di piani tra persone e personaggi, attori e ruoli, realtà e finzione, fino a che l’azione deborda oltre i confini stessi del palcoscenico per insinuarsi in quel mondo-di-fuori che è la platea, sembra mettere in scena la crisi di identità e valori della società contemporanea.

Una società di povere macchiette che arrivano talvolta a rinunciare a ciò che hanno di più caro, al proprio giardino-dei-ciliegi interiore, pur di continuare a ostentare l’immagine che il mondo ha di loro stesse.

http://www.teatrofilodrammatici.eu/

L’enigma dell’amore

Ci ho messo un po’ a recensire questo spettacolo, l’ultimo della già ampiamente citata rassegna “Illecite//Visioni” del Teatro Filodrammatici, che poi è passato a Brescia e che debutterà all’Eliseo di Roma nel maggio del prossimo anno. Ci ho messo qualche giorno, ma non perchè mi sia piaciuto particolarmente e non avessi parole per descriverlo. Piuttosto perchè non mi è piaciuto e vi ho cercato, con fatica, spunti interessanti.

enigmaAtto unico prodotto da Fuxia, scritto a quattro mani da Saverio Aversa e Fabio Grossi, diretto da quest’ultimo, vuole essere un omaggio a un personaggio purtroppo dimenticato da questa parte dell Alpi: il giurista, poeta e scrittore tedesco  vissuto nell’800 Karl Heinrich Ulrichs, considerato uno dei capostipiti del movimento di liberazione omosessuale.

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Annoverato come il primo gay ad aver fatto coming out, atto che gli costò il rifiuto della società e della famiglia nella repressiva Germania guglielmina, fine latinista  e fondatore di una rivista appunto in latino, ha coniato il termine uranisti con cui definire quelli che successivamente sarebbero stati universalmente chiamati omosessuali, e fu il primo a parlare apertamente e spendersi per i diritti delle persone lgb. Ha fondato le sue teorie sull’affermazione dell’amore come espressione naturale di pulsioni con un fondamento biologico oltre che emotivo proprie di ogni essere umano, e pertanto meritevoli di rispetto e incoraggiamento indipendentemente dal sesso di chi ne è oggetto. Dopo essersi autoesiliato dall’ostile Germania, Ullrich troverà rifugio in Italia e, molto malato, a L’Aquila, morirà nel 1895 ospite del marchese Persichetti.

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E proprio sul suo letto di morte, in una stanza di villa Persichetti, ha inizio lo spettacolo di Fabio Grossi, interpretato da Fabio Pasquini e Francesco Maccarinelli e con un cameo “virtuale” di Leo Gullotta. Assistito da una statuaria incarnazione della sua memoria, il nostro Ullrich morente ripercorre a ritroso nel tempo, attraverso un lungo flashback, incontri e situazioni di un’esistenza coraggiosa e piena di dignità, ricostruiti con videoproiezioni dallo stile vintage. Dai primi amori (come l’insegnante di equitazione che lo sedusse appena quattordicenne), agli incontri occasionali con marinai e ussari, alle appassionate arringhe in favore della depenalizzazione dell’omosessualità, alla dichiarazione pubblica delle sue inclinazioni, che gli valse il licenziamento come legale presso la corte distrettuale di Hildescheim in Hannover e il biasimo sociale.

Tanti erano i modi per omaggiare questo Harvey Milk ante-litteram. Purtroppo il regista ha scelto la via peggiore: quella della retorica. Il rischio infatti di scivolare in uno stucchevolissmo biopic lordo di orgoglio omosessuale (condivisibile sì, ma qui ridondante), infarcito di cliché era infatti dietro l’angolo. E con “L’enigma dell’amore”, in più di un’occasione ci siamo cascati con tutte le scarpe.

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La nudità (per quanto godibile) dei protagonisti, non aggiunge niente allo spettacolo. E’ totalmente fine a se stessa. Soprattutto quella di Maccarinello, con quell’aria aristocratica-delavé che sa un po’ di Helmut Berger (avete presente il Ludwig di Luchino Visconti?). Alter ego, nemesi e sorta di Virgilio della memoria, volto degli amori passati del protagonista, è costretto a passare l’intera rappresentazione in perenne posa da scultura greca, in parte pudicamente coperta da una lunga gonna di voile che certo non l’ha aiutato nell’interpretazione (per altro valida, se si eccettua quella generale patina passatista che non ha contribuito ad alleggerire il tutto). Così come ridicola è la scena finale della bandiera arcobaleno estratta dal letto dove giace l’ormai defunto Ullrich, sullo sfondo delle immagini del Gay Pride e con l’aria più famosa della Butterfly in chiave pop come accompagnamento musicale. In un tripudio di nubi di fumo, glitter dorati e atmosfera queer si aveva più la sensazione di stare per assistere a uno spettacolo di dragqueen anni ’80 che non a una pièce teatrale.

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Banalità e stereotipi a go-go. Più propaganda militante che buona prosa.

Per saperne di più:

http://www.youtube.com/watch?v=SjjWdvk9B-8

http://www.teatroeliseo.it/spettacolo.php?id=127

http://teatro.persinsala.it/lenigma-dellamore/8890

http://www.cinemagay.it/dosart.asp?ID=31688

http://www.teatrofilodrammatici.eu/website/?page_id=2105

Lectio Magistralis sulle Icone Gay… di Platinette

Non solo teatro per la rasseggna “Illecite//Visioni” ma anche incontri. E lezioni molto particolari. Ieri, alle 19, nelle sale dell’Accademia dei Filodrammatici è infatti approdato Mauro Coruzzi, in arte Platinette, che ha tenuto una lectio magristralis… sulle icone gay.

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Il titolo aulico strideva comicamente ma in maniera efficacie con il contenuto assolutamente camp di questa piccola conferenza con cui la Platy nazionale, in borghese ma senza perdere un millimetro della sua ironia graffiante, ha ripercorso oltre mezzo secolo di icone finocchie, nostrane ma non solo, da Patty Pravo a Madonna, dalla Rettore a Maria de Filippi e alle creature da lei sfornate con “Amici”,  passando ovviamente per la più amata di tutte: Mina.

Tra gag, aneddoti raccontati da chi  le ha conosciute davvero, continui salti temporali e geografici, digressioni e citazioni ci siamo letteralmente sbellicati dal ridere immaginandoci le nostre iconiche dive ora in qualche scalcagnato gay-club della bassa parmense, ora a far la maglia in qualche salotto borghese della Milano bene, ora nei dietrolequinte degli show più amati.

Una chiacchierata tra amiche in attesa dalla parrucchiera, per un’ora di leggerezza.

 

Una divina di Palermo – Illecite//Visioni @ Teatro Filodrammatici

Antenne…Antenne… Antenne…. Antenne… Antenne… 

No non sono impazzito. Questa è una della tante battute prive di senso, costruite sulla ripetizione ostinata e a tratti debordante di parole, suoni, richiami, di cui è costruito lo spettacolo “Una divina di Palermo”, andato in scena ieri al filodrammatici, terzo capitolo della kermesse di teatro a tematica omosessuale “Illecite//Visioni”.

Collage di venti testi come altrettante canzoni del drammaturgo siciliano Nino Gennaro, scritti tra il 1974 e il 1991, “Una divina di Palermo” è un monologo con cui l’attore Massimo Verdastro, sin dagli anni ’90 scopritore e interprete della poetica dell’autore, sciorina, propina, imbandisce, spara sul pubblico stralci di questi testi facendosi portatore, in teoria, dell’unica urgenza che li accomuna: “l’urgenza di essere detti”. Ne risulta un polpettone senza capo nè coda, inframmezzato da pezzi pop d’annata o arie d’opera, totalmente autoreferenziale, finalizzato forse solo all’autopromozione delle doti attoriali di Verdastro, che, montato su zeppe da Cugini di campagna fuori tempo massimo, capello lungo tirato indietro, filo di trucco, balletti da prozio di Heather Parisi, ci rifila lo stereotipo polveroso, trito e ritrito della vecchia checca nostalgica post-impegno politico, croce e delizia di una città palpitante di cultura e contraddizioni. Indulgendo ogni tanto, in questo gelatinoso insieme di cliché, sugli attributi tipici della diva (pallicciotto e occhialione panoramico), o su quelli di una draconiana figura materna (che, si sa, ogni gay porta sempre con sè ), il nostro personaggio sembra andare in cerca (forse) di una qualche matura autenticità.

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Il risultato è un fuoco di fila di parole. Parole, parole, parole. Gridate, sussurrate, cesellate, inventate e reinventate, ripetute come un mantra, per un’ora di assoluto nulla.

You know… di Dio e del sesso – Illecite//Visioni @ Teatro Filodrammatici

Il secondo atto della rassegna di teatro LGBT attualmente in corso al Filodrammatici è un one man show fortemente drammatico. Il monologo di Bill- Filippo Luna, scritto e diretto da Giovanni Lo Monaco, ci racconta l’esperienza ai limiti del border-line di un uomo montato su tacchi vertiginosi, inseparabile dal rosario che gli pende dal collo, alla disperata ricerca di un compromesso che possa ricucire il gap insanabile tra Dio-religione-credo cattolico-castrazione autorizzata da secoli di egemonia ecclesiastica e sesso-pulsioni-desiderio-perversioni-fatale attrazione verso il peccato, passando ovviamente per la parabola autolesionista del perenne senso di colpa. Dalla sua biografia gridata, stridente, sempre sopra le righe, che ad un certo punto involve in un balletto a luci rosse da crusing bar con relativo corollario di perversioni da toilette dell’autogrill, emerge quanto alla fine Bill arrivi a diventare un “marchettaro divino”, convinto di essere portatore del perdono e dell’assoluzione dai peccati attraverso la mercificazione del proprio corpo, custode di una terribile ferita, dell’anima più che del fisico…21

Sull’onda d’urto di questa autonarrazione disturbante, pur con il suo linguaggio assurdo che nasce da una miscela a tratti comica di siciliano e “american slang” tipo emigrante di Little Italy, tra citazioni bibliche, scurrilità da scaricatore di porto, preghiere da autoflagellante, in bilico tra una spiritualità molto fisica, volgare, mai contemplativa, e una sessualità distorta e altrettanto carnale, trova spazio un altro tema scottante: quello della pedofilia. Qui il (dis)equilibrio interiore del protagonista oscilla tra il disgusto socialmente accettato per la perversione di adulti che si fingono innocenti e un’inedita colpevolizzazione dei bambini, dotati di una loro depravata “seduction”, tesa a scandalizzare il pubblico e allo stesso tempo scandagliare un suo rimosso interiore. know2

Un rimosso che emerge anche in Bill, scardinante sì, ma anche terapeutico. Una catarsi (sia per il’io-narrante sia per il nostro io alquanto stanco di tanto eccesso gratuito) che assume l’aspetto di una cesura netta: la discesa dai trampoli tempestati di glitter e una regressione/flash-back verso aneddoti di Bill bambino.

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Nell’insieme va riconosciuta l’abilità di performer dell’attore che mantiene sempre alto il livello drammatico. Cosi alto da essere a tratti monocorde (almeno fino allo svelamento finale).

Blasfemo? Scandaloso? Scardinante? Conflittuale? Interrogativo? Forse. Quello che rimane di questo spettacolo, però,  è più un senso di mancanza della misura, autocompiaciuta celebrazione del proibito, un giudizio morale all’incontrario che non manca di velare il nudo-e-crudo della narrazione. Più che empatia o orrore verso il protagonista e i suoi dissidi, Giovani Lo Manaco  è riuscito a far serpeggiare nel pubblico noia e insofferenza, lasciando solo il messaggio di un’esperienza omosessuale all’insegna della disforia. Malata, conturbata, pericolosa e pericolante, figlia di un vissuto cupo e truculento. Tutto ciò che in teoria il CIG e l’associazionismo in generale vorrebbero combattere, you know…

Frateme – Illecite//Visioni @teatro filodrammatici

Al via ieri sera al Teatro Filodrammatici la seconda edizione della rassagna di teatro LGBT “Illecite//Visioni”. Provocatoria ed evocativa già nel titolo, ha debuttato con uno spettacolo assolutamente originale.

immagine festival - ph. Patrick MettrauxLontano da qualsiasi stereotipo macchettistico che vede l’omosessualità sempre raccontata attraverso una cornice di lustrini e paillettes, o collocato in redazioni di moda popolate di checche azzimate, “Frateme” , scritto e diretto da Benedetto Sicca, racconta con amara ironia e potente senso del tragico la storia dei tre fratelli Piscopo: appartanenti alla piccola borghesia di una Napoli assediata dalla spazzatura e avvelenata dalle esalazioni della camorra sono molto diversi da loro. L’unica cosa che veramente li accomuna è che sono tutti e tre gay, anche se ognuno di loro in modo diverso, “con diversi gradi di autocoscienza e diversi modi di relazionarsi con la società”.

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C’è Primo, il più grande, vitale e feroce che vive liberamente la sua omosessualità tanto da sedurre il suo compassato psicanalista, e ci sono i due gemelli Secondo e Seconda. Il primo di professione fa il fantino ed è ossessionato dal ricordo del suo amore perduto, stritolato in una spirale di decadenza psichica va in cerca di un improbabile riscatto emotivo attraverso l’affetto che prova per il collega Antonio, detto Frateme, volgare e borioso; la seconda innamorata dell’anziana insegnante di inglese, inconsapevole via di fuga a un’esistenza di infelicità e oppressione. Su di loro incombe la figura ingombrante e allo stesso tempo debole della madre, e quella invisibile ma permeante e ancora più minacciosa di padre-padrone.frateme

In questa Napoli che ha dimenticato tanto la solarità di Totò che di De Filippo, si snoda una “Gomorra” in chiave gay livida e marziale, tra bisogno di evasione e perenne senso di soffocamento in un intreccio di relazioni familiari che diventano catene invisibili, legami di sangue. Un  clan quasi mafioso di non-detto e omertà, rancori e amori viscerali dove trovare spazio per una propria equilibrata emotività sembra un’impresa impossibile.

Malgrado gli sforzi di un cast di ottimo livello, tuttavia, l’atto unico di Benedetto Sicca stenta a decollare. Notevole la caratterizzazione psicologica dei personaggi e di forte impatto il delinearsi durante tutta la rappresentazione di una “napoletanità” preziosa e grezza insieme, come una scultura appena sbozzata, ma nel complesso sbagliate alcune scelte registiche, piatto il disegno-luci, fuori luogo la scenografia minimal di sgabelli e tavoli in metallo montati su binari incassati nel palco. Gli spunti comici, infine, potevano strappare un sorriso ma avevano la tendenza a rallentare più che alleggerire il dipanarsi di quello che, di fatto, è un dramma che dovrebbe martellare il pubblico a suon di pugni nello stomaco.

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